venerdì 30 marzo 2012

DATEMI UN MOMENTO



Datemi un momento

Solo per me

Solo per pensare

Solo per vivere

Un istante senza invecchiare
 Un istante appena

Solo per vivere

Per essere me stessa

Per essere lontana
 Per essere lontana da tutto

L’istante prezioso che vale una vita

Quell’attimo che vale una vita 

Una vita preziosa… la mia







sabato 17 marzo 2012

Le ragazze della X generation


Come forse qualcuno avrà notato, non ho scritto niente sulla Festa della Donna. Volevo scrivere un post che non si basasse sulla mia storia personale, sulle Grandi Donne, o sulle Piccole Donne. Volevo scrivere qualcosa che riguardasse me, le mie amiche, la mia generazione in generale. Così mi sono venute in mente due parole che non sento più pronunciare da molto tempo: GENERAZIONE X.
Ho provato a chiedere in giro se qualcuno si ricordava cosa significasse, ma nessuno mi ha dato una risposta. Una locuzione che un tempo era di uso comune, oggi sembra dimenticata, perciò ho deciso di ricordare che cos’è la Generazione X: è la mia generazione, dimenticata anche lei.
Noi siamo quelle che quasi non ricordano i mondiali dell’82, bambine ai tempi di Cernobyl, preadolescenti alla caduta del Muro di Berlino e adolescenti negli anni di Mani Pulite e della Prima Guerra del Golfo.
La X indica che noi non siamo né carne né pesce: non abbiamo avuto le Grandi Ideologie dei ragazzi degli Anni ‘70 e neppure la spensieratezza degli Anni ‘80, perché gli Anni ‘90 vengono ricordati ancora oggi come quelli delle grandi stragi di mafia e di una crisi economica dovuta a un mondo che è cambiato nel giro di pochi mesi, grazie anche ad una guerra che non ha portato a niente.
Siamo le figlie di una generazione, quella dei nostri genitori, uscita dal boom economico, che credeva nella meritocrazia, che diceva che noi, le sue figlie, mai avremmo dovuto patire quello che aveva patito lei: concetto sbagliato, non ci ha dato le spalle robuste per vivere qualunque forma di privazione. Siamo le figlie delle prime famiglie che andavano disfacendosi, quando ancora il divorzio dei genitori era considerata una disgrazia grave e crescere in quella condizione non era una cosa normale. Siamo figlie di una società che si permetteva di inquinare quello che ora non osiamo neppure sognare.
Quando eravamo bambine ci insegnavano a investire nel futuro: dovevamo studiare, essere preparate, perché un domani saremmo state ricompensate. Infatti ci siamo imbottite la testa con diplomi sperimentali che dovevano darci qualcosa di più rispetto a quello che avevano ricevuto i nostri insegnanti. Solo adesso ne vedo la contraddizione in termini, perché quei diplomi, oggi, non hanno affatto quel valore aggiunto promesso, ma evidenziano solo che quelle materie studiate all’epoca con entusiasmo ora sono superate.
Poi siamo arrivate all’università, un’università che ci prometteva corsi di laurea (quinquennali) finalmente nuovi che ci avrebbero aperto le porte dell’universo. Chi di noi si è arrivata alla laurea, ha conquistato un titolo che, mentre ancora sudava per averlo, era già vecchio. Sì, perché proprio in quel periodo sono nate le lauree triennali. E così, la nostra generazione, scopre che questa preparazione, così coltivata, è eccessiva. Ho conosciuto personalmente delle ragazze che, a un colloquio di lavoro, si sono sentite dire “Lei è molto valida e preparata, ma io tanta preparazione non me la posso permettere, quindi credo che assumerò una con una laurea triennale, che mi costa meno.”
Ci hanno insegnato che l’organo più importante da coltivare è il cervello. E noi, diligenti, lo abbiamo fatto.
Per anni ci hanno spiegato che la meritocrazia si basa sulla capacità, sulla preparazione e sulla voglia di lavorare. Quando ero bambina avevamo come mito la bambola Barbie: lei era bella, donna in carriera, fidanzata (o sposata) con Ken, con sorelle o figlie. Lei, Barbie, aveva tutto: bellezza, soldi, fascino e sentimenti. E noi, diligenti, abbiamo inseguito quel modello, cercando di diventare come Barbie. I nostri cartoni animati ci educavano a lottare per dimostrare la nostra eccellenza, a scapito dei furbetti.
Alla fine è arrivato il momento di raccogliere i frutti di tutto questo lungo lavoro di preparazione.
Solo che, nel frattempo, la generazione che ci ha creato, e che ancora oggi è al potere, ha deciso di cambiare i canoni. Così abbiamo scoperto che l’organo da sviluppare di più non era il cervello, ma quello riproduttivo, e che è meglio se siamo se disponibili a mostrarlo, magari con una farfallina tatuata, meglio ancora se siamo  un po’ furbette, seguendo esattamente il modello che ci avevano insegnato a disprezzare . Come dire: “scusate ragazze, ma ci siamo sbagliati, non è la vostra cultura che ci interessa, ma la vostra farfallina. Era quella che dovevate coltivare, perché tanto, noi vecchi non possiamo andarcene in pensione quindi continueremo a conservare il nostro status.” Il problema è che noi, ormai, non abbiamo più l’età per mostrare la farfallina. E quindi ci troviamo nella condizione per cui, se da un lato, stiamo ancora facendo la cosiddetta gavetta senza prospettiva che questa finisca mai, dall’altro ci sentiamo già dire che dovremmo lasciare posto ai giovani, che non hanno la nostra preparazione, ma hanno le qualità in linea con i canoni attuali. Se ci fate caso noterete che di esempi del genere ne sono pieni i palinsesti e le poltrone in Parlamento.
Non mi illudo credendo che anni addietro fosse così, ma almeno prima questa aveva un nome diverso da “merito”. Scusate se vi sembra poco, ma a me tutto questo fa un po’ rabbia: mi sembra un tantinello  umiliante.
Da bambine sognavamo di avere carriera e famiglia perché era questo a cui ognuna di noi era stata educata a sognare. Poi abbiamo scoperto che la carriera, salvo donne particolarmente fortunate o eccezionalmente meritevoli, possiamo scordarcela e lasciarla ai nostri coetanei maschi perché, per noi, al massimo c’è la speranza di un contratto ad un tempo un po’ meno determinato di altri; del resto siamo ancora in età riproduttiva e fare figli costa senza contare che non sapremmo neanche dove metterli visto che i nostri genitori non possono aiutarci e che gli asili nido sono un’utopia. Ma questo è un discorso meramente teorico, e tra poco vi spiego il perché.
Da chi ha lavorato per anni per metterci in questa condizione,  scopriamo che siamo anche bamboccioni e sfigati: pochi soldi in tasca per vivere all’altezza dei nostri stimoli intellettuali, magari famiglie bisognose di aiuto. Conosco ragazze che non se ne vanno di casa perché altrimenti, senza il loro magro stipendio, la famiglia non tirerebbe avanti. Altre che, per lo stesso motivo, sono tornate a casa da genitori che hanno scoperto una pensione molto più misera di quanto promesso.
E i sogni di famiglia? Abbiamo scoperto che non siamo adatte per questo genere di imprese e non solo per i motivi sopra citati. Un po’ di tempo fa una signora mi disse: ”Ma voi ragazze non avete speranze di costruirvi una famiglia: siete troppo intelligenti, colte e indipendenti e  non ci sono tanti uomini in grado di tenervi testa, i pochi capaci sono troppo impegnati ad emergere dalla massa per accorgersi di voi e gli altri non sono alla vostra altezza.” Mai avrei pensato che quelle caratteristiche credute un pregio fino a poco tempo prima ora sono da considerarsi motivo di handicap. Potrei aggiungere che ho anche amiche fidanzate con uomini che non sono cerebrolesi e amici maschi molto intelligenti. Insomma questo è un discorso generale, che mi viene da fare guardandomi intorno.
Mi vengono in mente i personaggi di Sex ad The City: donne colte e intelligenti che, però, sono totalmente incapaci di essere indipendenti e passano di amore in ormone senza soluzione di continuità. Questa sembra essere la risposta alla solitudine e il disorientamento che vedo attorno a me: non bisogna essere indipendenti, non bisogna essere colte e non bisogna essere intelligenti. E se lo si è, bisogna comunque non mostrarlo. Chissà come si sentivano le donne messe al rogo come streghe e se erano così diverse dalle donne di cui sto parlando adesso.
Infine, perdonate questo sfogo, e ricordate una cosa: è la mia generazione che ha portato internet a tutti, che ha scoperto la cure a molte malattie e che lotta per ripulire un pianeta che qualcuno prima di noi ha imbrattato. Ha anche inventato il Viagra, già. Un riconoscimento, ogni tanto, sarebbe anche gradito.

venerdì 2 marzo 2012

Caro Lucio ti scrivo (dedicato a Lucio Dalla)


Caro Lucio,
in queste ore le frasi su di te si sprecano, e queste mie sono solo tra le tante, lo so.
Il mio ricordo non è legato al grande artista che sei stato, ma all’uomo, al tifoso.   Forse perché in un luogo di sport ti ho incontrato per la prima volta e sempre di sport ti ho sentito parlare.
Tu che amavi il mare e cantavi la memoria di Ayrton Senna.
Ti ricordo quel giorno, al derby, tu seduto dalla parte “sbagliata” della tifoseria, sorridente con quella tua espressione tipicamente divertita sul volto, guardavi la nostra scenografia e l’applaudivi, uno dei pochi, nel nostro storico palazzetto. Quello era il nostro derby nel nostro anno e tu ci applaudisti anche alla fine. Per me fu una partita memorabile.
Pochi giorni dopo ti incontrai sul Crescentone mentre ero a passeggio con quel tifoso sfegatato del ragazzo che frequentavo all’epoca. Lui ti fermò senza farsi troppi scrupoli. Ti salutò e Tu guardasti quel ragazzo alto con un giaccone della Fortitudo addosso senza smettere di sorridere dicendogli che il derby ce l’eravamo meritati anche solo per la scenografia pre-partita. Aggiungesti, non senza quel pizzico di cattiveria scaramantica che solo un bolognese può capire, che quello era il nostro anno. Noi che non avevamo mai vinto un cazzo. Lui ti rispose che anche con l’inno non ce la cavavamo male perché a lui piaceva di più il nostro, quello di Curreri, che non quella specie di marcetta di Topolino che aveva la Virtus. Lui che amava il jazz e che ti considerava il più grande. Diceva che eri un gigante di un metro e sessanta.
La sera seguente, manco a farlo apposta, ti incontrammo lungo i Viali noi con la nostra macchina e Tu con la tua. Ricordo che era ammaccata sul cofano e il mio ragazzo ti chiese cosa avevi fatto. Tu rispondesti con il tuo solito ghigno che avevi investito un fortitudino, che era stata una faticaccia, ma che se lui ci teneva tanto gli avresti fatto il favore. Ridemmo e ti salutammo.
Ti ho rivisto altre volte, ma non ti ho mai salutato, non mi sono mai avvicinata. Sono sempre stata timida in queste cose. Mi ha sempre intimidito il gigante che non riuscivo a non identificare con la musica meravigliosa che dava l’inizio al film del lunedì in Rai.  Era un'altra televisione. Come dimenticarla?
Però ti voglio ricordare, nel mondo forse più dolce, in quel giorno, a quel derby, quando ebbi l’impressione che cantavi con noi una sola strofa di tutto il nostro inno e adesso ascoltalo, e magari cantalo ancora, un po’ urlato, come si canta prima di una partita: “Bologna siamo noi…”
E scusami ancora se non sono mai stata virtussina.