domenica 20 maggio 2012

Un romanzo speciale: Il Corpo Odiato


“Sono sempre stato orgoglioso della mia solitudine. L’ho scelta: l’ho ostentata. Era l’unico modo per riuscire a conviverci. Ora non so nulla di ciò che sarà. So soltanto che ho paura: paura di sbagliare ancora e di non saper affrontare la situazione in cui sono capitato.”


A volte succede, leggendo un libro, di trovarsi in una particolare alchimia con i personaggi. Sono libri preziosi quanto costosissimi gioielli, ma molto più rari. Perle in un oceano di bassa editoria. Non so se capita solo a me, ma staccarmi da questi volumi diventa quasi una violenza. Lasciarli andare, una volta finiti, una fatica. E poi vengo anche assalita da una strana malinconia. Come quando torno a casa da un viaggio meraviglioso e la routine mi turba più del dovuto.
Era da tempo che facevo fatica a leggere un libro che potessi considerare degno di essere letto in questi termini. Da mesi leggevo romanzi carini, piacevoli, ma che non mi donavano quel qualcosa in più che non mi lasciava andare.
Tanto tempo fa una mia insegnante era solita dire: “smettetela di dire che non vi piace leggere e cominciate a dire che non avete ancora trovato il libro degno di essere letto da voi.”
Era da tempo che cercavo QUEL romanzo degno di essere letto, quello che mi entra in testa, quello che mi fa pensare come i protagonisti, quello che mi costringe a cambiare il mio punto di vista perché necessito di vedere le cose con la patina della finzione, quello che influenza anche il mio modo di scrivere.
Mi è capitato con questo romanzo, comprato per caso, incuriosita dai commenti positivi. Mi dicevo “chissà cos’avrà di speciale?” ormai vinta dall’apatia che mi coglie quando un incontro speciale con la carta stampata tarda ad arrivare.
E invece, con Lui, questa specie di miracolo mi è capitato: ci sono libri che ti entrano dentro e non sai il perché, e Il Corpo Odiato di Nicola Lecca lo ha fatto più di altri. Con un elemento aggiunto: quello dell’assurdità della situazione. Perché io, con il protagonista, non ho nulla a che spartire all’apparenza. Cosa posso avere in comune con Gabriele, un ragazzo di 19 anni che va a vivere da solo a più di 1200 km dal paesino natale? Sicuramente non il coraggio di affrontare sé stesso, le proprie paure, il proprio corpo. 
Perché, nonostante le apparenze, Gabriele è adorabile nella sua crescita che non è fatta di successi e vittorie, ma della vera presa di coscienza di sé stesso. È un grande, nel suo piccolo, nelle sue paure, nei suoi complessi, nelle sue insicurezze. Una figura agli antipodi da me. Eppure, mai prima d’ora mi ero identificata così tanto con un personaggio inventato.
Mi sono trovata a camminare per strada pensando nei termini che usa Gabriele, ad ascoltare la musica che ascolta lui, a evitare di guardarmi troppo allo specchio.
Adoro Shostakovich e la sua Sinfonia di Leningrado. Una volta mi piaceva e basta, era una cosa che ascoltavo di tanto in tanto, uno di quegli aspetti di me che nessuno doveva sapere. Ora l’adoro. Ora posso dire al mondo intero che ascolto anche “quella roba lì” e che ne sono quasi dipendente. Colpa di Gabriele.
Ma non solo: Gabriele mi ha lasciato con un senso di incompiuto: mi sento come se fossi sua zia e mi preoccupo perché non so come sta adesso, non ho più sue notizie.
Mai uno stile di scrittura mi aveva coinvolto tanto. Solo parole in un diario. Parole magnifiche però.
Se sapessi scrivere bene vorrei scrivere così. Ma non ne sono capace.

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